“Il Piano di rientro sulla Sanità? Una presa in giro”
C’è una bufala mediatica messa in giro dalla Giunta regionale a proposito della disastrata sanità calabrese: il Piano di rientro dai debiti. Si tratta di un diversivo. L’argomento esclusivo, di punto in bianco, non è più come ridare efficienza al sistema sanitario regionale, bensì come evitare la scure del Governo. La politica, responsabile dello sfascio, lancia un falso messaggio per distrarre l’attenzione dei calabresi dai suoi errori, spostando la colpa dei suoi insuccessi sul Governo “nemico”. Noi però, aggiungono i Governanti regionali, sapremo difendere la Calabria….
…Siamo in campagna elettorale e tutto è consentito a questa politica il cui unico disegno è garantirsi la continuità, nonostante si abbia la Regione più indebitata e priva di autorevolezza d’Europa. Tutto è lecito, persino seguitare a usare la sanità per ergersi a grandi timonieri. Il punto è che qui non c’è più né il “grande” né il “timone”, ma solo debiti. A sentirli, sembrerebbe che il problema non sia il grande debito accumulato dalla Regione Calabria dal 2001 a oggi, ma l’inflessibilità del Governo Berlusconi a cui si può dire tutto, tranne che accusarlo d’inflessibilità, soprattutto se l’oggetto è la sanità calabrese. Basta leggere il “decreto anticrisi”, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale un mese fa: un solo articolo richiama l’emergenza sanitaria calabrese, e poi niente. Perché mai il Governo non ha fermato prima il caos finanziario della sanità regionale? E’ evidente che ci sono state interlocuzioni sottotraccia i cui obiettivi non erano gli interessi della Calabria.
Quanto sta accadendo nel dibattito sulla sanità, monopolizzato dalla Giunta regionale nel silenzio dell’opposizione, è un esempio illuminante di come la politica calabrese tenti di coprire le proprie responsabilità, addossandole al Governo, che non è esente da colpe, per esempio ancora ritarda a porre la parola fine alla disamministrazione della sanità con il commissariamento. Addirittura, i tecnici del Ministero dell’Economia continuano a dire peste e corna della Regione e del suo bilancio, accuse che dimostrano: a) l’inesistenza di ogni rinnovamento politico e amministrativo in Calabria; b) la complicità del Governo, altrimenti perché mai il Ministero dell’Economia, se asserisce che la Calabria – unica tra le Regioni italiane che trasmette le informazioni economiche per tradizione orale – non interviene risolutamente al fine di impedire lo sfascio definitivo e tutelare i cittadini? Per mettere una pietra sui sospetti circa la stessa entità del “buco”, la Kpmg (l’advisor nominato dal Governo) che ha incassato 2,5 milioni di euro dalla Regione per ricostruire le disavanzo, dovrebbe avvertire il dovere di certificare il debito.
In quanto, sia esso di 2,1 miliardi o molto di più (considerato che la quantificazione dei contenziosi non pare sia possibile), se l’organizzazione funzionale del Dipartimento dell’Assessorato è inesistente, cosi com’è inesistente una rete virtuosa di manager e burocrati per il riassetto del settore, allora discutere di Piano di rientro è soltanto un inganno. Un modo per rinviare le scelte indispensabili per dare concretezza al diritto alla salute dei calabresi, i quali continuano a pagare l’aliquota massima dell’addizionale regionale e il ticket soltanto per tenere in piedi un settore destrutturato, mentre quando hanno bisogno di una prestazione debbono emigrare. Per la mobilità passiva, com’è noto, una parte cospicua, intorno al 15 per cento (in pratica anche un banale intervento chirurgico è fatto fuori regione) dei 3,3.miliardi di euro annualmente rimessi alla Regione Calabria dal Servizio sanitario Nazionale, è direttamente trattenuta dal Ministero. Basterebbe intervenire almeno su questo argomento per rimediare al disavanzo, ma come si può ridare fiducia ai calabresi nel sistema sanitario regionale se si continua a non assumere scelte coraggiose? La Regione, invece, anziché porre rimedi all’esodo attraverso la valorizzazione delle migliori professionalità, da reclutare attraverso procedure selettive trasparenti e da collocare nei posti strategici, continua a fare demagogia sulla bocciatura delle stabilizzazioni (senza peraltro verificare come alcuni direttori generali hanno utilizzato questo strumento), quasi che l’obiettivo di fare uscire dalla precarietà migliaia di persone fosse una preoccupazione soltanto sua.
Demagogia e clientelismo animano, d’altronde, anche il capitolo della chiusura degli ospedali richiesta dal Ministero: anziché fare un crono programma, con date e scadenze per la chiusura delle strutture inadeguate e prevederne la contestuale conversione, la Regione pensa bene di risolvere il problema non in base ai bisogni dei cittadini, ma in funzione di una suddivisione dei siti critici che risponde a criteri territoriali: uno per provincia. Com’è evidente, si è dinanzi a un Piano di rientro che perde di vista l’utente finale e che, inoltre, è ritagliato in funzione delle poltrone da tutelare e dei territori “amici”. Non contiene alcuna idee per rimuovere gli equilibri sistemici del settore e non è neanche un discreto manuale di sopravvivenza.
L’altro punto critico che salta agli occhi nel Piano di rientro, è che per rimediare ai richiami del Governo, in merito al costo del personale, la Regione ha pensato bene di proporre il blocco del turn-over, che ha come esito la messa in discussione del mantenimento dei livelli essenziali di assistenza e, contemporaneamente, la crescita della spesa generale, in quanto, per esempio, bloccare per tre anni le assunzioni del personale tecnico – come è stato indicato nel Piano del Piave – significa ratificare il ricorso alle esternalizzazioni, proprio per rimediare alle carenze di personale. Decisamente censurabili le inadempienze palesi, benché si sia in emergenza sanitaria da due anni, attinenti a) la verifica dell’appropriatezza delle prestazioni e dei ricoveri; b) i sistemi di contabilità analitica e di controllo di gestione mai attivati; c) il non essere riusciti a rendere operativa la prenotazione “on line” delle prestazioni di cui si ha bisogno, tra l’altro non sono “on line” neanche le liste d’attesa, eppure nell’ultimo decennio sono stati spesi milioni di euro per costruire reti informatiche regionali che avrebbero dovuto collegare il Dipartimento con tutte le Aziende per ottenere la centralizzazione delle informazioni sanitarie. Di centrale, in breve, nella sanità calabrese, c’è solo un sistema di potere che blocca ogni meccanismo di riforma.
Ci sarebbe bisogno, viceversa, anzitutto di un’etica del servizio pubblico di cui si avverte l’assenza, e poi di prendere atto che, dinanzi a questo sfacelo, si rischia la bancarotta. Occorrerebbe sì un Piano, ma non lo sbandierato Piano di rientro “politico”, fatto di qualche cifra buttata alla rinfusa da qualche dirigente compiacente ma, visto che i numeri sono cosi eclatanti, di un corposo Piano impostato lungo due direttici: finanziaria e politica. La prima incentrata su dati reali, esaustivi ed affidabili che organizzi il rientro dalle passività nel tempo; la seconda implica una riorganizzazione della sanità e dei servizi sociali che deve, se vuol essere seria, prendere le mosse dai bisogni epidemiologici del territorio e che, avendo come presupposto la fuoriuscita della politica dalla gestione della sanità, contenga parole d’ordine come merito, buona gestione, rigore, controlli interni ed esterni con resoconti puntuali e sanzioni. Prendendo atto, tuttavia, che oggi la politica e l’apparato amministrativo non sono nelle condizioni di muoversi nella direzione auspicata, lo Stato ha il dovere di intervenire. Oggi la Regione è come un nobile che ha perso tutto al tavolo da gioco, ma finge che non sia vero. La verità fa male ma è ineludibile: questa sanità malata è il segno, anche, di un regionalismo che è alla canna del gas. Oggi dobbiamo porci il problema di come rimediare ai danni, ma senza tralasciare il problema di come ricostruire il regionalismo calabrese su basi di eticità e di responsabilità per meglio affrontare la sfida del federalismo fiscale.
La sanità calabrese è la prova di un fallimento. Vogliamo, quindi, in Calabria prenderne atto, a incominciare col dire chiaro e tondo che il default del sistema ha nomi e cognomi e tutti li conosciamo? Oppure vogliamo seguitare ad affidarci di nuovo a loro, nella speranza che ci riservino un piccolo spazio nell’illusione che la torta pubblica non avrà mai fine? E’ pur vero che il fallimento della sanità ha radici antiche. Probabilmente c’è da riandare agli Anni ‘80, da quando la politica ha iniziato a usarla come serbatoio elettorale su cui fondare carriere politiche il più delle volte immeritate. Oggi questo “lusso” è giunto al capolinea. Anche se dopo il danno potrebbe sopraggiungere la beffa. E’ ipotizzabile, infatti, che in caso di nomina del commissario si ricorra al Presidente della Regione. Ha detto bene su “Repubblica” l’economista Tito Boeri, rivolgendosi al segretario del Pd, a proposito della sanità nel Mezzogiorno: “Bersani ha un’occasione per distanziarsi da queste pratiche: denunci il fatto che il recente accordo Stato/Regioni permette che siano gli stessi Governatori responsabili del dissesto a commissariare le Regioni coi conti in rosso. E’ un paradosso che significa rinunciare a sanzionare nell’unico modo possibile politicamente, le amministrazioni inefficienti”. Un’operazione simile, in un’azienda privata non sarebbe neanche immaginabile. Dinanzi a un debito “choc” che fa crollare la quantità e la qualità dei servizi sociosanitari, in una terra in cui la povertà è in preoccupante ascesa, l’amministratore delegato di un’azienda privata non potrebbe restare al suo posto un minuto di più.